PIGNONE, ORGOGLIO DA PRESERVARE

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Il 15 novembre scorso chiesi pubblicamente attenzione su quanto stava accadendo oltreoceano a General Electric. Il mio appello andò deserto, centrosinistra e centrodestra si tennero in silenzio in Consiglio regionale e l’unico fatto collegato fu l’addendum all’accordo di programma col quale il Presidente della Regione e il Ministero dello Sviluppo Economico hanno finanziato con altri 65milioni di fondi pubblici il gruppo Nuovo Pignone (oggi Baker Hughes, a GE company) per un investimento complessivo verso una società privata tale da risultare, ci sembra, secondo solo a quello Lamborghini

Da allora abbiamo avviato insieme a Gabriele Bianchi un percorso di analisi della situazione, tramite studi e incontri, al cui termine abbiamo sentito il dovere di presentare un’interrogazione alla giunta regionale nella quale abbiamo posto alcune domande che credo cruciali per la nostra Regione.

Come forse pochi hanno potuto rilevare, ma i lavoratori dell’ex Pignone e soprattutto dell’indotto sanno bene, l’azienda vive un momento di cambiamento legato a diversi fattori tra i quali sicuramente incide il prezzo del petrolio ma tanto riguarda la finanza e la gestione di General Electric. Quando una multinazionale così grande perde oltre il 50% del suo valore in borsa, significa che qualcosa non va e infatti il CEO di questo colosso ha disposto un piano di rilancio che passa anche dalla vendita di 20 miliardi di asset.

Tra questi, ad un certo punto, è stata messa anche la quota importante che General Electric ancora detiene in “Baker Hughes, a GE company”, cioè la principale azienda Oil & Gas del mondo che in Italia e in particolare in Toscana equivale alla nostra perla industriale: il Pignone.

Permettetemi un po’ di racconto storico, perché credo fondamentale che tutti i toscani abbiano cognizione di ciò di cui stiamo parlando.

ORGOGLIO ITALIANO E TOSCANO
La storia della più grande industria toscana, il Pignone, parte dal lontano 1842 quando quattro toscani crearono la “Fonderia di ferro di seconda fusione fuori la porta San Frediano”, dieci anni dopo divenuta “Fonderia del Pignone” (poi “Società anonima Fonderia del Pignone”) prendendo in prestito la denominazione del borgo che si trovava al tempo sulla riva sinistra dell’Arno.

Con la prima guerra mondiale l’attività della Pignone iniziò ad arricchirsi anche della produzione di compressori, motori a olio pesante e macchine olearie, oltre a forniture militari. Un’espansione segnata nel 1929 dall’apertura nel quartiere Rifredi del nuovo stabilimento specializzato proprio in produzioni meccaniche poi divenuto la sede della società.

Terminata la seconda guerra mondiale, 1946, Pignone entrò a far parte del gruppo tessile Snia Viscosa, nel tentativo di riconvertirsi alla produzione di telai tessili. Ma l’operazione dette esiti negativi al punto da arrivare al momento storico del primo licenziamento del Pignone, datato 21 luglio 1953. Quando, tre mesi dopo, quella data l’azienda inviò le ulteriori 1.750 lettere di licenziamento che avrebbero decretato la fine del Pignone, gli operai reagirono con serrata, occupazione della fabbrica e mantenimento attivo della produzione.

Questa reazione stimolò la cittadinanza di Firenze ad una risposta popolare di solidarietà realizzata intorno allo slogan “Salviamo la Pignone” che secondo studi recenti riunì più di 12 mila persone che si mobilitarono per sostenere la protesta, guidati dall’allora sindaco di Firenze, Giorgio La Pira, e dal Presidente della Provincia, Mario Fabiani.

I rappresentanti istituzionali, insieme ai sindacati, avviarono una trattativa col Governo nazionale dalla quale emerse la proposta di utilizzare i prodotti della Pignone per le attività di estrazione petrolifera. Una proposta raccolta poi dall’ENI allora guidata da Enrico Mattei, nel 1954, che dette vita alla Nuova Pignone.

Mattei, tramite la Nuovo Pignone, voleva rendere l’ENI autosufficiente nei confronti dei fornitori internazionali di macchinari per il ciclo di estrazione e lavorazione degli idrocarburi. Questo scopo portò l’azienda ad acquisire licenze e brevetti da varie aziende come Dresser, GE e Grove e Siemens. E proprio sfruttando la licenza per le turbine General Electric, nel 1961, riuscirà a produrre impianti di turbocompressione.

Il mix d’offerta della Nuovo Pignone ha portato questa realtà ad un’espansione di sedi e stabilimenti, anche all’estero, processo questo che per la Toscana ha significato l’apertura e il consolidamento dello stabilimento di Massa.

GOVERNO VENDE, COMPRA GENERAL ELECTRIC (USA)
Quando nel 1992 il governo Amato avvia le privatizzazioni, include la Nuovo Pignone in questo percorso come componente non “core” di ENI. In quel momento l’azienda era fabbrica molto qualificata, con tecnologia di proprietà su compressori centrifughi e produzione diversificata: dai compressori alternativi alle turbine a vapore fino alle turbine a gas. Anche per questa sua natura efficiente e strategica secondo alcuni commentatori Pignone non andava privatizzata, ma la scelta di includerla nel piano fu legata a motivazioni politiche anche collegate all’evitare quel destino alla Italgas di Napoli.

I sindacati reagirono negativamente alla privatizzazione tramite assemblee e consigli di fabbrica, riuscendo a mobilitare per la seconda volta la cittadinanza di Firenze, e ad aggiungervi anche quella di proveniente dagli altri territori segnati dalla scelta, in una simbolica marcia su Piazza della Signoria del 15 ottobre 1993.

Al termine di un lungo periodo di trattative, il 23 maggio 1994, la Nuovo Pignone venne così acquistata dalla multinazionale americana General Electric che un anno dopo conserva i 4525 dipendenti. Dopo un primo periodo di integrazione lenta, Nuovo Pignone parte del gruppo GE inizia ad espandersi nel settore oil & gas con ruolo da protagonista, avvalorata dalla scelta del gruppo di mutare la sua organizzazione in tre comparti dei quali, proprio quello Oil & Gas era rappresentato dall’azienda con quartier generale a Firenze (HQ internazionale per Turbomachinery Solutions).

Il fatturato di GE Oil & GAS nel 2013 superava i 4,6 miliardi di euro e la divisione detiene in Italia il 90% delle produzioni di macchinari per l’estrazione del petrolio e del gas.

Soli tre anni dopo, complice il calo del prezzo del petrolio, GE annuncia la fusione con Baker Hughes – colosso da 20 miliardi di dollari sempre nel settore Oil & Gas – dopo che l’antitrust americana aveva evitato un’operazione analoga tra questa e Halliburton. La fusione si traduce nella creazione di “Baker Hughes, a GE company” (BHGE). Grazie alla fusione, conclusa nel luglio 2017, la nuova società presenta un’offerta completa in campo Oil & GAS, dalla produzione delle turbine alla preparazione del campo di ricerca, fino ai servizi logistici e di manutenzione connessi al settore.

Il colosso è pronto, unico al mondo per offerta integrata, e il futuro sembra roseo e segnato. Il capitale è degli americani e del “mercato” (la società è quotata in borsa), il know how – brevetti … – è in cassaforte italiana perché vincolato con accordo 2015 alla controllata Nuovo Pignone Tecnologie srl, gli stabilimenti toscani danno lavoro a circa 4600 dipendenti BHGE e 1600 persone impiegate nell’indotto, tutto sembra andare. Invece …

E ADESSO? INTANTO LICENZIAMENTI NELL’INDOTTO
A pochi mesi da quella fusione il CEO di General Electric annuncia il suo piano dove la partecipazione in BHGE è messa in discussione. General Electric quindi potrebbe vendere la sua quota (ha il 62,5% quindi se volesse andarsene completamente dovrebbe trovare qualcuno con circa 7 miliardi di euro per comprarle). Intanto l’azienda BHGE inzia a ridurre le spese.

Lato lavorativo interno vige un accordo sindacale in scadenza a settembre che tutela l’occupazione, quindi lì si taglia poco. Ma l’azienda vive da anni grazie a lavoratori in staff leasing, interinali e altre formule. Più c’è l’indotto di servizio con i relativi lavoratori. E lì la politica di riduzione dei costi si sente subito: alla richiesta di ridurre del 20% il prezzo delle forniture le aziende dell’indotto (Livorno, polo logistico, Massa e meno Firenze) iniziano a reagire riducendo i lavoratori e/o le ore lavoro.

Già da un anno circa il 40% dei lavoratori delle aziende che lavorano per BHGE è rimasto a casa per alcuni periodi coperti dagli ammortizzatori sociali o in ferie forzate;

A metà febbraio 2018, la Logistics & Painting (gruppo B-cube) ha mostrato segni di grave sofferenza tanto da avviare procedure di licenziamenti collettivi, poi ritirati a seguito di proteste sindacali ed irregolarità formali, ma che potrebbero ripetersi.

A distanza di pochissimi giorni, anche nell’area del Nuovo Pignone di Avenza, cento lavoratori della TC srl – azienda dell’indotto – hanno protestato per i ritardi di mesi nel pagamento degli stipendi e delle tredicesime, considerando oltretutto che la maggior parte di questi lavoratori sono stranieri assunti a tempo determinato.

Proprio ieri a Massa 52 lavoratori di una ditta subappaltatrice di un’azienda (B-Cube) fornitrice di BHGE hanno fatto 8 ore di sciopero e protesta pubblica perché hanno ricevuto dall’azienda l’annuncio del licenziamento dal 31 luglio. Considerato che nel polo Massa-Avenza BHGE usufruisce di circa 800 lavoratori dell’indotto su 350 dipendenti dell’azienda, la situazione è molto seria e allarmante. Soprattutto perché il Pignone è la realtà industriale più forte di un’area economicamente depressa, la Provincia di Massa Carrara, che ha tassi di occupazione pari alla Basilicata, di molto sotto la media toscana.

POLITICA SI SVEGLI E ANALIZZI QUANTO STA SUCCEDENDO
Questa situazione potrebbe trovare sbocco solo da un’inversione di tendenza del piano di riduzione delle spese di BHGE, azienda che assicura da sola quasi un punto del PIL toscano.

Il Pignone è un orgoglio italiano e toscano e la politica ha il compito di svegliarsi, analizzare quanto sta succedendo e prendersi la responsabilità di governare la situazione.

E qui arriva la questione delle domande al Presidente della Regione.

Come accennato prima infatti, Rossi ha firmato insieme al Ministro Calenda un accordo di programma col gruppo Pignone, quindi con gli americani, legato a “Progetto Galileo”. Parliamo di uno dei più grandi investimenti dello Stato italiano in un’azienda privata dal dopoguerra in poi: 600 milioni di dollari nell’oil & gas di cui 400 milioni saranno messe a disposizione da GE e 200 milioni dalle istituzioni pubbliche (Regione Toscana e Governo italiano).

Il “Progetto Galileo” sulla carta prevede lo sviluppo di progetti di ricerca in tecnologie, in particolare, tra cui la realizzazione in Toscana di un Centro di Eccellenza di valenza mondiale per lo sviluppo di prodotti strategici quali turbine a gas e compressori centrifughi di nuova generazione funzionali alla strategia di crescita della divisione Turbomachinery Solutions, il cui cuore del business Oil&Gas di General Electric sarà a Firenze. Parliamo di qualcosa di molto rilevante e importante cui è stato aggiunto a gennaio 2018 anche un “addendum” con l’obbiettivo di finanziare due dei cinque sotto progetti del Progetto Galileo per un investimento di 65 milioni di euro di cui 20,8 milioni di risorse pubbliche.

Il Presidente Rossi e il Ministro Calenda hanno firmato questo addendum senza coinvolgere le rappresentanze sindacali, aspetto curioso visto che questa appendice all’accordo impegna l’azienda ad assumere 60 dipendenti a tempo indeterminato sul territorio regionale entro giugno 2022 e a garantire, nello stesso periodo, 8 milioni di euro di commesse o forniture alle imprese toscane (senza specificare dove).

Chiaro che un progetto molto legato all’automazione come il Progetto Galileo, dove l’impatto occupazionale è di 60 persone, realizzato mentre sta succedendo tutto questo e mentre hanno già iniziato a rimanere a casa centinaia di lavoratori dell’indotto deve essere spiegato dal Presidente Rossi.

Per questo abbiamo chiesto

  • se è a conoscenza e quale valutazione dia della grave situazione occupazionale che si sta generando in Toscana, in particolare, per i lavoratori dell’indotto BHGE nelle zone di Firenze, Massa – Carrara e Livorno
  • Quante siano le risorse regionali e statali già trasferite all’azienda BHGE e perché la contrattazione tra BHGE, Regione Toscana e Ministero dello Sviluppo Economico sul Progetto Galileo non abbia incluso un passaggio con le rappresentanze sindacali
  • se, visti i corposi investimenti pubblici, abbia richiesto all’azienda delucidazioni sulle cause della crescente crisi delle aziende dell’indotto di GE e sulle sue politiche industriali di medio-lungo periodo
  • se ha notizia di possibili investimenti di Ricerca e Sviluppo aziendale sul campo delle energie rinnovabili visti i trend internazionali relativi all’Oil&Gas
  • quali iniziative, nell’ambito delle proprie attribuzioni, la Regione Toscana intenda assumere per prevenire una crisi occupazionale e sociale relativa a BHGE, i cui riflessi sarebbero pagati in prima istanza da imprese e lavoratori dell’indotto

La politica torni alla sua vocazione più nobile: creiamo le condizioni per ricomporre queste crisi delle società satellite dell’indotto e prevenire in ogni modo scenari che potrebbero portare alla terza riproposizione di quello slogan che di cuore ci auguriamo di dover tenere nel libro dei ricordi: “Salviamo la Pignone”.