Abbiamo portato il caso Cava Paterno in Consiglio regionale con una interrogazione.
“Chi inquina paga” è principio normativo, ma a Cava Paterno hanno inquinato i privati, alcune persone sono morte forse per le esalazioni di quel sito, e a pagare il conto è lo Stato.
Giusto mettere in sicurezza il sito quanto prima a tutela della salute pubblica – dato che Università di Pisa e ARPAT definirono anche un pericolo radioattività per lavoratori e residenti nei pressi del sito – anche se servono a poco i 150mila euro regionali dati due anni fa se non arriveranno i 5 milioni chiesti al Ministero. Ma la gestione amministrativa del presente non può diventare pietra tombale dell’accertamento delle responsabilità politiche su questo buco nero del traffico illecito di rifiuti che ha macchiato la Toscana, coinvolgendo società pubbliche e private del sistema regionale, fino a includere nel quadro il coinvolgimento della malavita organizzata.
Tra il 1999 e il 2000 ARPAT dichiarò che a Cava Paterno c’erano “smarino proveniente dai lavori dell’Alta Velocità ed altri fanghi sempre connessi con quei lavori”, materiali solo parzialmente bonificati. Eppure il 17 dicembre 2012 le Province di Firenze, Prato e Pistoia inserirono “l’impianto” nel Piano Interprovinciale dei rifiuti, ufficialmente per “smaltire amianto”.
Un atto arrivato nonostante la battaglia pluriennale del consigliere comunale Stefano Chemeri, successivamente deceduto insieme alla moglie per tumore, che invano denunciò esalazioni tossiche dal sito e in un esposto arrivò persino ad attribuire l’assenza di verifiche puntuali da parte delle istituzioni ad interessi di gruppi societari “privati e pubblici legati al Partito dei Democratici di Sinistra”.
La prima ispezione all’impianto dopo il suo inserimento in un quadro di interesse pubblico – il Piano Interprovinciale – arrivò l’8 luglio 2013. ARPAT e Corpo Forestale dello Stato confermarono i rilievi di Chemeri e del resto della cittadinanza preoccupata: ‘1300 sacchi di polverino 500 mesh’ proveniente da una ‘ditta della Provincia di Massa Carrara’, un capannone di 4000mq con ‘vario materiale non identificato’ e uno ‘stato di degrado dell’area’ dove dichiararono di ‘non poter escludere la presenza anche di manufatti interrati e di zone impermeabilizzate’. Proprio ieri la Direzione Distrettuale Antimafia di Genova ha disposto 7 avvisi di conclusione dell’indagine sui sacchi di polverino mesh – che nel tempo portò al sequestro di tutti i siti di provenienza o utilizzo del materiale trovato in quei 1300 big bag – e due di questi avvisi hanno raggiunto gli ex proprietari della discarica (Lanciotto e Tullia Ottaviani), già condannati dal Tribunale di Firenze il 24 novembre socrso per la mancata bonifica e messa in sicurezza del sito.
Siamo fiduciosi nel lavoro della magistratura sul quadro penale di questa storia, incluso il rapporto tra la società di Ottaviani e Giovanni Gugliotta – imprenditore che secondo gli inquirenti sarebbe stato raccordo tra la prima e alcuni clan camorristici – ma riteniamo che ai cittadini debba interessare anche l’incredibile zona grigia pubblica raccontata da questa storia.
Nel 2010 entra nella vicenda Cava Paterno una società con anche capitale pubblico che acquisì il sito e pagò in larga parte i debiti dell’impresa dei Tulliani: la Produrre Pulito spa. Questa società era partecipata dal Comune di Sesto Fiorentino e da altri soci privati tra i quali già la STA spa. Nel 2013 la compagine cambiò con l’ingresso al 22,32% di CONSIAG spa – partecipata da 23 comuni della Provincia di Firenze – e soprattutto di INFRA al 52,13%, di proprietà di Cooplat e della stessa STA spa. In quest’ultima, simil scatole cinesi, ci sono diverse ‘società di sistema’ toscane: una holding di Unieco e Castelnuovese, Banca Etruria (9,5%), Monte Paschi di Siena (12,15%) e di nuovo Cooplat al 9,5%. STA spa è talmente società di sistema che la ritroviamo in quella SEI Toscana, gestore unico dei rifiuti ATO Toscana sud, finito nella maxi inchiesta penale sulla gara del servizio, per il quale ieri l’ANAC ha chiesto la proroga del commissariamento di altri 9 mesi.
Ebbene proprio questa società nel 2016 ha acquisito il 100% della Produrre Pulito spa, referente per Cava Paterno.
Tutto lascerebbe pensare al muoversi di un sistema, quello toscano appunto, rispetto a quella che si è dimostrata essere una bomba ecologica a danno della salute dei cittadini.
Il minimo a questo punto è avere risposta dalla giunta regionale sui punti cardine di questa storia: perché la Regione non ha presentato denuncia alle autorità davanti a questo quadro noto dal 1999 e perché Cava Paterno fu inserita come discarica di rifiuti urbani nel Piano interprovinciale dei rifiuti, restandovi nonostante i rilievi di ARPAT. Infine chiediamo a Rossi e PD uno sforzo di onestà intellettuale: ci dicano cosa sanno sul coinvolgimento di queste aziende di sistema regionali in un investimento quantomeno discutibile.
E visto che il principio normativo è “chi inquina paga”, ci spieghino infine se, finita la bonifica, sarà attivata un’azione di rivalsa verso la proprietà privata responsabile della contaminazione.